Introduzione alla Neurosociologia. Le relazioni sociali da un punto di vista Neurosociologico

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Introduzione alla Neurosociologia. Le relazioni sociali da un punto di vista Neurosociologico

Istituto di Scienze Forensi Investigazioni scientifiche
Pubblicato da ISF Magazine in Psicologia e Neuroscienze · 14 Marzo 2022
Autore: dr.ssa Martina Penazzo (Istituto di Scienze Forensi)


Cosa è la Neurosociologia
Con il termine “Neurosociologia” si intende quella disciplina che vuole unire in sé lo studio delle neuroscienze e della sociologia. In particolare, questa disciplina indaga la relazione che intercorre tra strutture neurali e interazioni sociali, al fine di spiegare come questi due fattori si influenzino vicendevolmente. La neurosociologia quale scienza applicata si occupa di come trasferire i risultati della ricerca neurobiologica alle questioni di carattere sociale, specialmente a livello “microsociologico”, focalizzandosi dunque sulle interazioni umane su scala ridotta, prendendo in considerazione i piccoli gruppi, quali ad esempio la famiglia ed il gruppo di pari. “La neurosociologia può quindi essere considerata come branca delle neuroscienze che studia le interazioni sociali e la socializzazione in rapporto alle strutture e alle funzioni del sistema nervoso” (Blanco, 2016, p.34).
“La neurosociologia utilizza le conoscenze delle neuroscienze per lo studio dei fenomeni sociali e delle interazioni umane, partendo dalla "dimensione sociale" del cervello, e impiega gli strumenti della sociologia per integrare la ricerca e lo sviluppo delle neuroscienze sociali. Pertanto, da un lato la neurosociologia si inquadra come disciplina specialistica della sociologia che analizza, tramite le nuove conoscenze sul sistema nervoso, le interazioni sociali e i fenomeni devianti (e criminali) in tutti i contesti dove essi si realizzano. Dall’altro, la neurosociologia si delinea quale strumento in grado di implementare, integrando il sapere sociologico e quello delle neuroscienze, significativi cambiamenti nella qualità delle relazioni umane a qualsiasi livello, sia micro che macro.” [1](Blanco, 2018).
Inoltre, ricordiamo che fu grazie agli studi del neurochirurgo Joseph E. Bogen e del sociologo Warren D. TenHouten che nei primi anni Settanta nel XX secolo venne introdotto il termine “neurosociologia”. Questi studi vennero condotti in collaborazione con Philip J. Vogel, anch’egli neurochirurgo, che per primo svolse gli interventi di split brain, ovvero di divisione del cervello[2].
Bogen e TenHouten diedero inizio alla storia della neurosociologia attraverso lo studio denominato “Rapporto sulla lateralizzazione emisferica”, con il quale si evidenziarono delle notevoli differenze nell’utilizzo degli emisferi cerebrali tra uomini e donne e tra soggetti appartenenti a culture differenti.

1. Le prime teorie neurosociologiche
In questo primo paragrafo si è voluta svolgere una panoramica sulle prime teorie neurosociologiche, sulla loro genesi ed il loro sviluppo, passando in rassegna i principali autori coinvolti nello studio di questa disciplina, ma anche parlando di coloro che furono i precursori della stessa, che pur non avendo mai parlato di neurosociologia in senso stresso, hanno senz’altro apportato un prezioso contributo allo studio di tale disciplina.

1.1 George Herbert Mead
Mead fu un filosofo ed uno psicologo sociale che insegnò all’Università di Chicago, ed è senz’altro da considerarsi un precursore della neurosociologia. Pur non avendo mai avuto a che fare con essa in senso stretto, il suo lavoro ha senz’altro apportato un prezioso contributo a questa disciplina. (Blanco, 2016).
Ciò che influenzò di più la neurosociologia furono le ricerche di Mead nell’ambito della formazione del sé, in quanto non è da egli inteso in termini di “spirito” o “anima”, bensì come qualcosa che si forma e di realizza nel corso dell’interazione sociale.
Dunque, risulta centrale in questo senso l’approccio dell’interazionismo simbolico, inaugurato da Mead, il quale pone al centro della sua analisi l’interazione sociale e l'interpretazione che di questa ne danno coloro che vi partecipano.
Ciò che Mead teorizza come “conversazione” interna di un individuo con sé stesso, è ciò che gli permette di prendere consapevolezza del significato delle proprie azioni e di quelle degli altri. Questo dialogo interiore in un certo senso riflette l’interazione sociale e in esso vengono assunti i punti di vista degli altri, e ne consegue che il sé nasce da questo processo psichico, e dunque tale dialogo non è costruito soggettivamente, bensì intersoggettivamente attraverso le dinamiche sociali.
Ricordiamo inoltre che Mead fu uno dei maggiori esponenti del pragmatismo, scuola di pensiero che venne influenzata dal darwinismo e dal positivismo ottocentesco, i quali vollero avvicinare sempre di più le scienze sociali e quelle biologiche.
Mead portò alla luce un altro importante concetto, ossia il parallelismo tra ciò che accade nella coscienza e ciò che avviene nel sistema nervoso centrale, in questo senso Mead afferma: «Il parallelismo, quindi, costituisce un tentativo di reperire analogie fra l’azione e i contenuti dell’esperienza» (Mead, 1936)[3]. Inizialmente questo parallelismo fu interpretato come statico, ossia veniva inteso che ad uno stato di coscienza corrispondesse uno stato fisiologico, successivamente questa interpretazione fece un passo avanti e divenne più dinamica, di conseguenza non si parlava più di “stato”, bensì di “atto” e dunque di una condotta. Pertanto, questo passaggio ad un dinamismo interpretativo ci aiuta a comprendere in che modo l’individuo diventa conscio di sé stesso, degli altri e di ciò che lo circonda.
Anche le società erano da considerarsi alla stregua di organismi biologici e dovevano essere studiate attraverso categorie evoluzionistiche. Nel pensiero di Mead questo rappresentò un punto di congiunzione tra filosofia, psicologia, sociologia e scienze naturali. Dunque, come visto in precedenza, l’atto individuale è visto nell’atto sociale, e così facendo la psicologia e la sociologia vengono unite su una comune base biologica. Seguendo tale ragionamento, se la mente e il sé non preesistono alla società, ma si formano mediante essa, allora la sociologia deve studiarne le dinamiche. La neurosociologia risulta in questo senso la declinazione di questo pensiero, adattato allo studio del cervello in funzione sociale, e non più soltanto allo studio della mente.

1.2 Bogen e TenHouten
Come sopra citato, Bogen e TenHouten condussero uno studio denominato “Rapporto sulla lateralizzazione emisferica” e questo studio fu il frutto dell’analisi di uno studio demografico del 1971 (Marsh, TenHouten) che per la sua conduzione prevedeva l’utilizzo di due tipi di test: il test Street ed il test WAIS. Entrambi i test venivano utilizzati per definire il livello di performance in culture differenti. In particolare, nel test Street[4] si vuole verificare la capacità del soggetto di unire dei frammenti di un’immagine in un’unica figura realistica. Il test consiste nel sottoporre due figure al soggetto, fornendogli tutte le spiegazioni necessarie per facilitarlo al riconoscimento di esse. In un secondo momento vengono proposte quattordici figure a intervalli di tempo di trenta secondi ciascuna, e il soggetto ad ogni sessione deve spiegare cosa ha riconosciuto nell’immagine. Per quanto riguarda il punteggio esso oscilla tra 0 e 14 punti (Splinner e Tognoli, 1987). Il punteggio medio nella fascia di età 40-49 anni è di 8,45, e va a calare nella la fascia di età 85-90 anni assumendo un valore di 4,37. Il punteggio oscilla dunque tra 0 e 14, il punteggio medio va da 8,45 nella la fascia di età 40-49 anni e scende a 4,37 nella fascia 85-90 anni[5].
Per quanto riguarda invece il test WAIS[6], esso non è altro che il classico test del quoziente intellettivo (QI), e si occupa inoltre di valutare il funzionamento cognitivo (Lang, Nosengo e Xella, 1996). È altresì ampiamente dimostrato come le caratteristiche culturali influenzino considerevolmente i risultati del test (Stenberg, 2009; Gardner, 1983, 1993, 2002) e per questo motivo si è dibattuto molto riguardo alla possibilità di riassestare il test WAIS mediante parametri differenti.
Dai risultati di questi test presi in esame nell’ambito dello studio demografico, emerse come i neri afroamericani e gli indiani Hopi[7] ottennero dei risultati migliori nel test Street piuttosto che nel test WAIS e dunque Bogen e TenHouten ne dedussero che i neri afroamericani e gli indiani Hopi nelle attività cognitive utilizzavano prevalentemente l’emisfero cerebrale destro, al contrario dei bianchi che utilizzavano maggiormente il sinistro. L’ipotesi che venne avanzata e ripetutamente confermata riguardava il fatto che il test WAIS potesse essere strutturato sulle basi logico-cognitive caratteristiche della cultura occidentale, la quale predilige un approccio razionale tipico di una maggiore attività dell’emisfero sinistro (Blanco, 2016), e da ciò Bogen e TenHouten ne dedussero che vi fosse una differenza nei percorsi neurali in base alla cultura di appartenenza, portando così alla luce la prima grande teoria neurosociologica.
Successivamente nel 1979 Bogen decise di condurre un nuovo studio su 145 abitanti di Pomona, cittadina situata nella Contea di Los Angeles. Lo studioso somministrò nuovamente i test Street e WAIS, ed i risultati ottenuti confermarono ancora una volta che i neri afroamericani utilizzavano prevalentemente l’emisfero destro. Il risultato di questo secondo esperimento permise a Bogen e TenHouten non solo di confermare la loro prima teoria neurosociologica, ma anche di ampliarne i suoi contenuti. I due studiosi arrivarono così ad affermare che vi fossero delle differenze nella dominanza emisferica tra soggetti appartenenti a razze differenti, inoltre affermarono che con tutta probabilità vi erano anche ulteriori fattori che influissero in modo determinante nell’utilizzo di un emisfero piuttosto che di un altro, ed alcuni di questi fattori erano riscontrabili nella cultura, nelle condizioni sociali ed economiche, e in ultimo nel livello di istruzione.
Si può concludere che il cervello umano verrebbe modellato dalla cultura alla quale appartiene, assumendo, di conseguenza, determinate caratteristiche funzionali. Il cervello è a tutti gli effetti un organo esperienza sociale-dipendente (Blanco, 2016, p.172).
Proprio in questo frangente si apre una nuova prospettiva interpretativa che vede il legame tra cultura e cognizione come causa di fatti sociali.
La prospettiva della neurosociologia è orientata verso un modello multifattoriale dello studio delle differenze cognitive e funzionali esistenti tra soggetti appartenenti ad etnie differenti: neurofisiologico, culturale e psicosociale (Blanco, 2016).

1.3 Jhon T. Cacioppo e Gary G. Berntson
I primi anni Novanta del XX secolo possono essere considerati gli anni della nascita della neuroscienza sociale. In particolare, ciò avvenne grazie ad un articolo pubblicato da parte di Jhon T. Cacioppo e Gary G. Berntson sulla rivista “American Psychologist” edita dalla American Psychological Association. Cacioppo e Berntson, professori alla Ohio State University, hanno voluto dedicare i loro studi a cercare di comprendere in che modo le interazioni sociali potessero influenzare la fisiologia, e viceversa come la fisiologia potesse influenzare le interazioni sociali. Attraverso l’utilizzo di strumenti impiegati per la scansione cerebrale e l’analisi di laboratorio, i due studiosi hanno potuto osservare come gli ambienti sociali riescano ad influenzare il cervello e le funzioni biologiche degli esseri umani.
“In pratica, le relazioni e gli ambienti sociali hanno effetti sulle strutture neurali nonché sulle reazioni neuroendocrine, metaboliche ed immunitarie di cui il cervello è l’organo di regolazione” (Cacioppo, Berntson, Decety, 2011; Blanco, 2016, p. 20).
Dunque, la neuroscienza sociale tenta di capire come i processi biologici influenzino i processi sociali ed il comportamento. “Inoltre, utilizza i concetti e i dati sul comportamento per aggiornare e perfezionare le teorie sull’organizzazione delle funzioni neurali” (Blanco, 2016, p. 20).
Il lavoro di questi due studiosi ha senz’altro dato il via a un nuovo approccio nell’ambito delle neuroscienze e delle sue applicazioni non solo in ambito medico e psicologico, ma anche nell’ambito delle scienze sociali quali appunto la sociologia. La nascita di questo nuovo approccio interdisciplinare va ricercata nell’intreccio di conoscenze e competenze tra un dottore di ricerca in filosofia quale John Cacioppo e di uno psicobiologo quale Gary Berntson, i quali, insieme, idearono un nuovo oggetto di studio, il quale non era più solo la mera comprensione del comportamento umano, ma anche di quelle che sono le implicazioni biologiche che il comportamento umano imprime a sé stesso e sugli individui con cui esso interagisce. (Blanco, 2016).

1.4 David D. Franks
David D. Franks fu sociologo e professore alla Virginia Commonwealth University, e per lui la neurosociologia rappresentava il ponte che poteva unire le neuroscienze alla psicologia sociale (Franks, 2010). Egli dopo aver letto il libro dal titolo “Il cervello sociale” [8] di Michael Gazzaniga affermò: “Se il cervello era davvero sociale, ho pensato che i sociologi dovevano essere i primi a conoscerlo e non gli ultimi” (Franks, 2010), e proprio per questo a lui va il merito di aver introdotto i fondamenti della neurosociologia su più ampia scala attraverso i suoi insegnamenti e le sue pubblicazioni.
Nel 2010, Franks pubblica il libro intitolato “Neurosociology: The Nexus Between Neuroscience and Social Psychology” e proprio in questo libro egli solleva una questione epistemologica che rappresenta un punto di svolta.
La questione che Franks pone riguarda il fatto che è sicuramente vero che i progressi delle neuroscienze aiutano la psicologia sociale e la sociologia a creare nuove prospettive e nuovi approcci di ricerca, ma è altresì vero che queste ultime sono in grado di far crollare l’idea prettamente deterministica che si ha delle neuroscienze, le quali vengono spesso considerate più interessate alla parte inconscia piuttosto che a quella conscia della mente, ossia meno interessate alla parte dell’azione sociale in sé.
Dunque, questo risulta un punto di svolta nella misura in cui nella letteratura della neurosociologia non c’era mai stato segno di una volontà di superamento rispetto alla sociologia classica, bensì spesso si ritrovava una volontà di prendere in prestito determinati costrutti sociologici per applicarli a paradigmi neuroscientifici e viceversa attingere a teorie sociologiche per applicarle allo studio del cervello.
Successivamente nel 2013, assieme a Jonathan H. Turner, sociologo e professore alla University of California, Franks pubblica il suo secondo manuale di neurosociologia dal titolo “Handbook of Neurosociology”. Nel manuale i due autori si concentrano in particolare sullo spiegare in cosa consiste quello che loro definiscono il passaggio dalle scienze sociali alle scienze sociali neurali, sottolineando quanto sia importante il modo di pensare di ogni individuo, unitamente alle condizioni materiali che lo circondano, nella creazione della realtà sociale.
La neurosociologia di Franks si basa infine sulla teoria microsociologica dell’interazionismo simbolico. Questa corrente si è sviluppata attorno agli anni ’30 del XX secolo attraverso le teorie introdotte da Mead. L’interazionismo simbolico pone l’attenzione sui processi interpersonali attraverso i quali gli individui entrano in relazione con i propri meccanismi di pensiero e con quelli altrui, alla ricerca di una linea di condotta da seguire. Viene posta inoltre l’attenzione sull’attività di simbolizzazione svolta dagli individui nel corso dell’interazione e di quella che è l’interpretazione delle proprie esperienze e di quelle altrui. In sintesi, la realtà sociale è frutto dell’interpretazione e della conseguente attribuzione di senso ai simboli nati a partire dall’interazione tra gli individui.


I neuroni specchio
In questo secondo capitolo si è voluto affrontare l’argomento inizialmente da un punto di vista scientifico, ossia parlando degli esperimenti e delle scoperte che permisero di teorizzare l’esistenza dei neuroni specchio. Successivamente, attraverso l’analisi di alcuni esperimenti condotti da neuroscienziati e psicologi sociali si sono volute esaminare le implicazioni di questo fenomeno nel campo dell’agire sociale e dell’interazione sociale in generale, mantenendo sempre un punto di vista scientifico.

2. La scoperta dei neuroni specchio
Nel 1992, all’Università di Parma, un’equipe di scienziati italiani scoprì la classe di neuroni che venne in seguito denominata “neuroni specchio”. Gli scienziati che resero possibile questa scoperta furono Vittorio Gallese, Leonardo Fogassi, Luciano Fadiga e il neuroscienziato Giacomo Rizzolatti. Quest’ultimo ed i suoi collaboratori lavorarono a stretto contatto con il macaco nemestrino, una specie di scimmia che viene generalmente impiegata negli esperimenti neuroscientifici per via della loro indole particolarmente docile. L’impiego delle scimmie nel laboratorio di Rizzolatti era dovuto alle potenzialità di questa specie nella possibile comprensione del funzionamento e della complessità del cervello umano. Quest’ultimo infatti contiene circa cento miliardi di neuroni, ciascuno dei quali può potenzialmente stabilire delle connessioni con decine di migliaia di altri neuroni, permettendo ad essi, attraverso le sinapsi stabilite, di comunicare tra di loro (Blanco, 2016).
Una delle strutture principali nel cervello dei mammiferi è la neocorteccia, e nonostante quella umana sia da considerarsi molto più estesa rispetto a quella dei macachi, le strutture dei due tipi di neocorteccia corrispondono sufficientemente bene (Blanco, 2016). Nei laboratori dell’università di Parma, dunque, l’equipe di Rizzolatti si dedicò allo studio dell’area F5, situata nella regione cerebrale chiamata corteccia premotoria, ossia la zona della neocorteccia che si occupa della pianificazione, della selezione e dell’esecuzione di azioni, infatti, l’area F5 contiene milioni di neuroni atti alla codifica di un particolare comportamento motorio, quale ad esempio, l’atto di afferrare, tenere, strappare e portare cibo alla bocca. Risulta comunque importante sottolineare il fatto che questi neuroni si attivano solo di fronte ad un gesto che risulta finalizzato ad uno scopo. Al contrario essi rimangono inattivi se lo scopo non è compreso o individuato. Dunque, è anche per questa ragione che l’equipe di Rizzolatti scelse l’area F5 per ottenere un’indagine il più possibile assimilabile alla realtà. (Blanco, 2016).
Dopo numerosi esperimenti, l’equipe si rese conto del fatto che l’impulso neurale nelle scimmie si verificava ogni volta che queste ultime osservavano uno dei membri dell’equipe afferrare del cibo con la mano. (Blanco, 2016).
Ciò permise ai ricercatori di ipotizzare che il neurone nella scimmia, si attivasse come meccanismo di risposta a un movimento compiuto da un terzo osservato, e non direttamente dalla scimmia, e che di conseguenza il sistema motorio potesse avere una funzione decisiva nel riconoscimento delle azioni osservate, modificando molti dei paradigmi neurocognitivi sino ad allora in vigore. (Blanco, 2016).
Nel cognitivismo classico, infatti, i processi sensoriali e quelli motori venivano concettualmente separati sia tra loro, sia rispetto ai processi cognitivi (Gallese, 2006). Nella scienza neurologica invece si pensava che i processi sensoriali, sensitivi e motori fossero di esclusiva competenza di determinate aree corticali. Dunque, le aree visive erano situate solamente nel lobo occipitale, le aree uditive nella circonvoluzione temporale superiore (Blanco, 2016). Sulla base di questa interpretazione riguardo il funzionamento del sistema percettivo-motorio, per compiere un’azione il nostro cervello opera una serie di procedure sequenziali, e il risultato di questa elaborazione viene trasmesso alla corteccia motoria che provvederà ad effettuare gli eventuali movimenti. Da questa interpretazione si evince come il sistema motorio avesse un ruolo marginale e meramente esecutivo. (Blanco, 2016).
Successivamente, alla luce delle seguenti teorie cognitiviste, e agli sviluppi nell’ambito della neurofisiologia, grazie a una serie di studi l’area della corteccia motoria fu suddivisa in rappresentazioni molto più articolate e si arrivò alla graduale decostruzione di questo modello (Penfield e Boldrey, 1937; Woolsey, 1952). In virtù di ciò, quello che la scoperta dei neuroni specchio ci dice, è che i neuroni nella corteccia premotoria possono richiamare i movimenti anche in base al significato delle azioni osservate e non solo sulla base degli stimoli (Di Pellegrino, 1992), unendo la codificazione della percezione e dell’azione in un unico momento. Se pensiamo ad esempio a un movimento quotidiano come quello di afferrare un oggetto, possiamo affermare che secondo il modello cognitivo dello Human Processing Information (che è il modello che paragona il cervello ad una macchina computazionale) il primo step sarà quello di individuare l’oggetto, successivamente processeremo tutte le informazioni che ci servono per afferrarlo, e solo quando questo calcolo seriale sarà concluso (in una frazione di secondo) si attiverà il movimento (Blanco, 2016). La scoperta del sistema specchio invece ci porta a pensare che, all’osservazione di un oggetto, si preattivino automaticamente i neuroni del sistema motorio, che quindi riproduce a livello neuronale in modo automatico l’azione di afferrare quell’oggetto (Craighero, 2010). Ci sono bensì delle differenze tra uomo e scimmia riguardo al momento specifico in cui si attiva il sistema mirror: negli uomini lo spettro delle situazioni che ne determinano l’attivazione sembra essere molto più ampio, infatti, la discriminante sta nel riconoscere le azioni dotate di senso e le azioni intransitive (non dirette verso un oggetto). Tutto ciò ha a che fare con la capacità di generalizzazione e astrazione tipica dell’umano, infatti nell’uomo, a differenza delle scimmie, si attivano i neuroni specchio anche quando a essere osservato è un braccio meccanico, o addirittura anche a livello uditivo nei non vedenti dalla nascita. In riferimento a ciò è stato condotto un esperimento su non vedenti dalla nascita, sottoponendo i soggetti a una risonanza magnetica funzionale, facendo loro ascoltare diverse tipologie di suono: alcuni riguardanti azioni familiari (come, ad esempio, il suono di un campanello), altri non familiari (come, ad esempio, il suono di uno sparo) e altri suoni ambientali. Ciò che è emerso è che di fronte a suoni familiari nei non vedenti si attivano le stesse aree che si attivano nelle persone vedenti sia durante l’attività di ascolto sia durante l’osservazione di azioni, e questo risultato dimostra come il sistema specchio esista anche in coloro che non hanno mai avuto la possibilità di vivere esperienze visive. (Blanco, 2016).

2.1 Andrew Meltzoff e Jacqueline Nadel: i neuroni specchio nei bambini
Secondo la visione ottocentesca, la capacità di imitare l’altro era diffusa in tutto il mondo animale, ma una volta tramontata questa visione, tutti gli studiosi iniziarono a ritenere che la vera imitazione fosse propria solo degli umani. L’imitazione venne considerata una caratteristica talmente pervasiva del comportamento che molti autori elaborarono teorie in cui essa assumeva un ruolo centrale, come fece ad esempio Susan Blackmore. Quest’ultima, nella sua opera “La macchina dei memi” (1999) sosteneva che a distinguere in modo netto gli umani dagli animali non fosse il linguaggio, bensì proprio la capacità di imitare.
Attorno agli anni Settanta, e dunque ben prima che venne scoperta l’esistenza dei neuroni specchio, Andrew Meltzoff, psicologo americano, riuscì a stravolgere la psicologia dell’età evolutiva dimostrando come i neonati imitino istintivamente alcune espressioni del volto e determinati gesti delle mani. (Iacoboni, 2008).
Egli condusse l’esperimento con un neonato venuto al mondo da soli quarantuno minuti; inizialmente Meltzoff documentò ogni secondo della vita del neonato con il fine di dimostrare che il piccolo non aveva mai visto quei gesti in precedenza e successivamente arrivò a dimostrare come effettivamente il neonato, pur non avendo mai visto quei gesti, tendeva ad imitarli. Secondo lo studioso questo risultava un segno del fatto che nel cervello dei neonati ci fosse un meccanismo che consentisse quel meccanismo imitativo elementare. Questa scoperta risultò innovativa nella misura in cui fino a quel momento il dogma asseriva che i bambini imparassero ad imitare gesti e movenze attorno al secondo anno di vita.[9]
Dunque, l’aspetto sorprendente stava nel fatto che fino a quel momento si era ipotizzato che i bambini crescendo imparassero a imitare, la scoperta di Meltzoff invece faceva pensare che i bambini imparassero per mezzo dell’imitazione (Meltzoff, Moore 1977; Piaget 1945).
Successivamente la psicologa dell’età evolutiva Jacqueline Nadel condusse degli studi sull’imitazione tra bambini intorno all’anno di vita. La psicologa predispose una stanza giochi, con due esemplari di ogni giocattolo. Ciò che venne osservato e che risultò sorprendete fu il fatto che i bambini presi in esame, non avendo ancora sviluppato il linguaggio, si imitassero spontaneamente. Se un bambino decideva di indossare un cappello, l’altro bambino indossava il secondo cappello, se un bambino decideva di indossare gli occhiali da sole anche il secondo bambino seguiva quel gesto e così via per tutti gli oggetti presenti nella stanza. “Dunque, è stata riscontrata l’esistenza di un forte legame tra l’imitazione e la comunicazione verbale nei bambini, infatti, quando essi non sanno come interagire con la parola, tendono a fare dei giochi di imitazione” (Iacoboni, 2008, p. 49).

2.2 Paula Niedenthal e il contagio emotivo
Gli studiosi Elaine Hatfield, Jhon Cacioppo e Richard L. Rapson nel loro libro “Il contagio emotivo” (1997) spiegano come sia insita nella natura umana la tendenza ad imitarsi reciprocamente, a sincronizzare i propri corpi, le proprie azioni ed il modo di parlare gli uni con gli altri. Gli studiosi, nel loro libro riportano quanto segue: “le persone imitano le altrui espressioni di dolore, riso, sorriso, affetto, imbarazzo, disagio, disgusto, i balbettii, lo sforzo di raggiungere qualcosa, e così via, in un’ampia gamma di situazioni. Una tale mimica […] è un atto comunicativo, che trasmette un rapido e preciso messaggio non verbale a un’altra persona.” (Hatfield, Cacioppo e Rapson, 1994. Iacoboni 2008, p. 99).
Questa sincronia emotiva che ci caratterizza ha nella maggior parte dei casi una componente emozionale. Questo aspetto è facilmente riscontrabile nelle riprese video condotte da Frank Bernieri su giovani coppie, dalle quali si evince che le coppie che presentavano maggiore sincronia motoria erano anche quelle il cui rapporto emotivo risultava più forte. (Iacoboni, 2016).
Anche le misurazioni svolte dallo psicologo Ulf Dimberg risultano importanti in questo senso: egli svolse delle misurazioni delle attività dei muscoli facciali di soggetti che erano impegnati a guardare volti con espressioni felici o arrabbiate. Ne emerse che l’attività dei muscoli della guancia che vengono contratti per sorridere aumentava quando i soggetti osservavano dei volti che presentavano un’espressione felice, mentre l’attività dei muscoli della fronte che si contraggono quando subentra un sentimento di rabbia aumentava nel momento in cui i soggetti osservavano dei volti arrabbiati. (Dimberg, 1982). Un elemento da tenere in considerazione in questo esperimento, e che ci porta a parlare delle scoperte della psicologa Paula Niedenthal, sta nel fatto che non vi fossero interazioni faccia a faccia durante l’esperimento, bensì i soggetti osservavano solamente delle immagini. Emerge così la questione di quale sia il vero ruolo della mimica tra i soggetti nell’ambito specifico dell’esperimento.
La risposta a questo quesito viene da uno studio condotto dalla psicologa sociale statunitense Paula Niedenthal, la quale nel suo esperimento chiese a due gruppi di partecipanti di notare i cambiamenti nelle espressioni facciali di altre persone. L’elemento più significativo dell’esperimento stava nel fatto che i componenti di uno dei due gruppi non potevano muovere in modo del tutto naturale il loro volto, in quanto gli venne chiesto di tenere una matita tra i denti. Questa decisione venne presa in quanto la matita tenuta tra i denti avrebbe limitato la capacità di sorridere, corrugare la fronte o svolgere qualsiasi altro movimento possa compiere abitualmente il nostro volto. Dall’esperimento ne risultò che coloro che trattenevano la matita tra i denti ebbero molta più difficoltà nel riconoscere le espressioni emozionali facciali, rispetto a chi invece aveva la possibilità di mimare espressioni senza impedimenti (Niedenthal, Barsalou, Winkielman, Krauth – Gruber e Ric, 2005).  “Dunque, imitare gli altri non è solo una forma di comunicazione non verbale, bensì, in primo luogo, è qualcosa che ci aiuta a percepire le espressioni altrui (e quindi le loro emozioni)” (Iacoboni, 2008, p. 100).
I risultati di questo esperimento però possono apparire contro intuitivi dal momento in cui ci si aspetta che al fine di mimare un’espressione facciale emozionale, essa debba prima essere riconosciuta dal soggetto. Questo assunto risulta vero solo se si parte dal presupposto che la mimica debba per forza essere preceduta da un riconoscimento intenzionale, bensì la scoperta dell’esistenza dei neuroni specchio ci può fornire un’altra chiave interpretativa, ossia l’idea che in realtà sia la mimica a fornire e precedere il riconoscimento stesso. (Iacoboni, 2008, p. 100).
Questo meccanismo viene messo in atto dal momento in cui i neuroni specchio inducono ad una imitazione automatica e irriflessiva delle espressioni facciali osservate, e proprio questo meccanismo di imitazione non richiede necessariamente un riconoscimento esplicito per essere messo in atto. Una volta osservata l’espressione, i neuroni specchio inviano dei segnali ai centri emozionali situati nel sistema limbico del cervello (Iacoboni, 2008, p. 100). Dunque, l’attività neurale che si innesca dai segnali provenienti dai neuroni specchio, ci fa provare l’emozione associata all’espressione osservata ed è solo in questo momento che provando le emozioni internamente, si è in grado di riconoscerle in modo esplicito.
“Nel momento in cui ai partecipanti di uno dei due gruppi viene chiesto di tenere la matita tra i denti, l’attività motoria richiesta da questa azione interferisce con quella dei neuroni specchio che dovrebbero imitare espressioni facciali osservate. E viene così impedita anche la susseguente cascata di attivazioni neurali che porterebbe al riconoscimento esplicito delle emozioni.” (Iacoboni, 2008, p. 100).

2.3 Il fenomeno della risonanza
Si sente spesso parlare di risonanza quando entrano in campo i neuroni specchio. Da un punto di vista prettamente storico questo concetto fu introdotto dal fisico Christian Huygens, il quale notò come due pendoli collocati l’uno vicino all’altro sulla stessa parete, avevano la tendenza a sincronizzare il loro movimento oscillatorio assumendo lo stesso ritmo (Blanco, 2016, p. 149). In sostanza, il fenomeno della risonanza si verifica quando una forza esterna agisce su un sistema fisico con una frequenza capace di amplificare il moto del sistema stesso. (Blanco, 2016, p. 150).
Un esempio esplicativo di questo fenomeno riguarda il moto oscillatorio dell’altalena dei parchi giochi. L’altalena ha una frequenza oscillatoria, e per spingerci una persona bisognerà necessariamente sincronizzare la spinta con il suo moto. L’intensità della spinta è irrilevante, ciò che conta invece è il momento in cui essa avviene, infatti, quando l’altalena ritornerà indietro al massimo della sua oscillazione, una piccola spinta aumenterà l’ampiezza dell’oscillazione stessa (Blanco, 2016, p. 150). “Tornando a parlare dei neuroni specchio, possiamo affermare che la risonanza è quel fenomeno che induce nell’osservatore la medesima attivazione neurale dell’osservato. In altre parole, l’osservato “risuona” nell’osservatore.” (Blanco, 2016, p. 150).
Come detto in precedenza, osservando un soggetto compiere un’azione motoria, verrà provocata nell’osservatore la pre-attivazione degli stessi muscoli coinvolti nel movimento dell’osservato e questa risonanza risulterà inconsapevole. Il fenomeno della risonanza ci aiuta anche a comprendere come le esperienze passate influenzino le risposte del sistema mirror quando osserviamo movimenti di cui siamo più esperti, come per esempio i movimenti eseguiti da un calciatore entreranno maggiormente in risonanza con chi sarà esperto di quei movimenti. Questa “memoria” motoria viene chiamata da Rizzolatti, neuroscienziato e studioso, una “maniera primitiva di capire gli altri”[10]. Dunque, in riferimento alla capacità di applicazione dei neuroni specchio alla sfera dell’empatia e delle emozioni Rizzolatti si esprime come segue: “[…] La capacità del cervello di risuonare alla percezione dei volti e dei gesti altrui e di codificarli immediatamente in termini visceral-motori fornisce il substrato neurale per una compartecipazione empatica che, sia pure in modi e a livelli diversi, sostanzia e orienta le nostre condotte e le nostre relazioni interindividuali. […] Quali che siano le aree corticali interessate (centri motori o viscero-motori) e il tipo di risonanza indotta, il meccanismo dei neuroni specchio incarna sul piano neurale quella modalità del comprendere che, prima di ogni mediazione concettuale e linguistica, dà forma alla nostra esperienza degli altri. Lo studio del sistema motorio ci aveva indirizzato verso un'analisi neurofisiologica dell'azione che era in grado di individuare i circuiti neurali che regolano il nostro avere a che fare con le cose. La chiarificazione della natura e della portata del meccanismo dei neuroni specchio sembra ora offrirci una base unitaria a partire dalla quale cominciare a indagare i processi cerebrali responsabili di quella variegata gamma di comportamenti che scandisce la nostra esistenza individuale e in cui prende corpo la rete delle nostre relazioni interindividuali e sociali”. (Rizzolati, Senigaglia, 2016, pp. 183-184).
In questo passaggio si può notare come Rizzolatti faccia un appello alle scienze sociali, al fine di usufruire della scoperta dei neuroni specchio per poter indagare ad approfondire le implicazioni di tale scoperta nella sfera dell’agire sociale. In riferimento a ciò, Rizzolatti offre il suo contributo anche in merito all’apprendimento e al fenomeno dell’imitazione analizzato in precedenza.
“Appare così chiaro come il sistema dei neuroni specchio svolga un ruolo fondamentale nell’imitazione, codificando l’azione osservata in termini motori e rendendo in tal modo possibile una sua replica. […] Tale sistema è condizione necessaria, ma non sufficiente per imitare. Ciò vale per la capacità non solo di apprendere via imitazione, ma anche di ripetere atti compiuti da altri e appartenenti al nostro patrimonio motorio. Perché vi sia imitazione è necessario un sistema di controllo sui neuroni specchio. E questo controllo deve essere duplice: facilitatorio e inibitorio. Deve facilitare il passaggio dall’azione potenziale, codificata dai neuroni specchio, all’esecuzione dell’atto motorio vero e proprio, ma deve essere anche in grado di bloccare un simile passaggio. […] L’esistenza di meccanismi di controllo sul sistema dei neuroni specchio è provata da parecchi dati.” (Rizzolatti, Senigaglia, 2016, pp. 139-145).
Dunque, la scoperta dei neuroni specchio risulta funzionale alle scienze sociali nella misura in cui, senza il sistema mirror, avremmo difficoltà a codificare e trovare il senso nelle azioni altrui e a condividere con gli altri i significati che si vengono a creare grazie al fenomeno della risonanza. I neuroni specchio rappresentano quindi una delle più significative basi biologiche della socialità, e risultano funzionali anche alla trasmissione di quel tipo di cultura che viene da sempre tramandata in modo diretto.

2.4 Iacoboni: i neuroni specchio come collante fra sé e l’altro
La teoria del neuroscienziato Marco Iacoboni, relativa al modo in cui i neuroni specchio diventano il collante neurale fra sé e l’altro, parte dallo sviluppo dei neuroni specchio nel cervello infantile. Secondo Iacoboni il comportamento imitativo dei genitori fa si che il cervello del bambino possa, ad esempio, associare alla vista di un volto che sorride il piano motorio necessario al sorriso. (Iacoboni, 2008, p. 118).
“Di conseguenza, quando il bambino vedrà qualcuno sorridere, nel suo cervello verrà evocata l’attività neurale associata al piano motorio necessario per sorridere, con la simulazione di un sorriso.” (Iacoboni, 2018, p. 118).
Secondo questa logica allora il sé e l’altro sono legati in maniera intrinseca dal funzionamento dei neuroni specchio; nel cervello infantile, infatti, i neuroni specchio sono formati proprio dalle interazioni fra sé e gli altri.
“È questo il concetto chiave da tenere a mente per comprendere il ruolo dei neuroni specchio nel comportamento sociale umano. Ha senso il fatto che, più avanti nella nostra vita, noi usiamo queste stesse cellule nervose per capire gli stati mentali altrui. Ma ha ugualmente senso il fatto che le usiamo per costruire un senso del sé, dato che queste cellule si originano in una fase precoce della vita, quando il comportamento delle altre persone è il riflesso del nostro stesso comportamento. Negli altri, con i neuroni specchio, vediamo noi stessi.” (Iacoboni, 2008, p. 118).
Ciò che Iacoboni teorizza come legame tra sé e l’altro attraverso i neuroni specchio ha in realtà delle basi empiriche: fu condotto uno studio su alcune coppie di bambini, in alcune coppie entrambi i bambini avevano già imparato a riconoscere la propria immagine allo specchio, mentre alcuni soggetti di altre coppie non erano ancora in grado di riconoscersi. I risultati di questo esperimento portarono a capire come le coppie già in grado di riconoscersi allo specchio avevano la tendenza ad imitarsi vicendevolmente in misura molto maggiore rispetto alle coppie di bambini che ancora non avevano sviluppato quella capacità. (Asendorpf, Baudonniere, 1993).
Dai risultati di questo studio Iacoboni arriva ad affermare che l’auto riconoscimento e l’imitazione procedono di pari passo in quanto i neuroni specchio si vengono a formare nelle prime fasi della vita, mentre l’altro imita il sé.
Iacoboni afferma: “È ovvio che già alla nascita possediamo una certa dotazione di neuroni specchio, visti i dati di Meltzoff sull’imitazione dei neonati. Però la mia argomentazione si basa sull’assunto che il sistema dei neuroni specchio prenda forma in larga misura attraverso le relazioni imitative fra sé e l’altro, specialmente nel primo periodo di vita. […] Secondo la mia teoria, è logico che le coppie di bambini in grado di auto riconoscersi fossero anche quelle che si imitavano di più, dato che in entrambi i processi sono implicati i medesimi neuroni […].” (Iacoboni, 2008, p. 119).


Le relazioni sociali
In quest’ultimo capitolo, vorrei analizzare in modo più approfondito il fenomeno delle relazioni sociali, già indirettamente affrontato nei capitoli precedenti, sia da un punto di vista neurosociologico, sia dal punto di vista della sociologia, per arrivare infine a coglierne e ad analizzarne i principali punti di congiunzione.

3. Sociologia e progresso neuroscientifico
La sociologia nacque grazie al Positivismo di Auguste Comte (1798-1857), padre fondatore di questa corrente di pensiero nata in Francia nella prima metà dell’Ottocento[11].
Il Positivismo poneva la scienza a fondamento della conoscenza, estendendo il metodo scientifico della sperimentazione e della verifica dei fenomeni a tutti i campi del sapere. Per Comte, l’umanità aveva superato la fase teologica e metafisica ed era giunta allo stadio scientifico grazie a scienziati come Galileo e Cartesio. Comte, inoltre, è stato il primo a ipotizzare che le relazioni sociali possano essere studiate in termini scientifici poiché regolate da leggi naturali. Così, egli guardava alla sociologia quale scienza che, tramite analisi rigorosamente scientifiche della società, potesse risolvere i problemi sociali e le questioni politiche. Ma la fiducia nella scienza e nel progresso scientifico la ritroviamo anche in Émile Durkheim (1858-1917), altro padre della sociologia, il quale, nel suo trattato “Per una definizione dei fenomeni religiosi” del 1898, scriveva:
«[…] La società ha un suo modo d'essere; dunque, un suo modo di pensare. Ha le sue passioni, sue abitudini, suoi bisogni che sono diversi da quelli particolari degli individui e che caratterizzano in modo preciso tutto ciò che essa concepisce. Perciò non dobbiamo sorprenderci se, in quanto individui, non ci ritroviamo in queste concezioni che non sono nostre e che noi non produciamo. Esse hanno un alone di mistero che ci inquieta. Questo mistero non riguarda l'oggetto stesso che esse rappresentano. Ciò è dovuto interamente alla nostra ignoranza. Si tratta in realtà di un mistero che gradualmente verrà fugato dai progressi scientifici. Solo ora la scienza comincia a penetrare in questo mondo chiamato religione. Quando saremmo in grado di comprendere come funziona la coscienza collettiva, tutte queste rappresentazioni perderanno la loro aura di mistero». (Durkheim, 1898).
Grazie alle moderne neuroscienze inizia ad avere le prime spiegazioni fisiologiche il concetto di “coscienza collettiva” postulato da Durkheim (cfr. sopra “Per una definizione dei fenomeni religiosi”). Questo dato non può lasciare indifferente il mondo delle scienze sociali, altrimenti il grande pregio della sociologia di essere scienza che studia l’agire umano e i fatti sociali scientificamente da diversi punti di osservazione, verrebbe meno nell’impianto teorico voluto dai suoi padri fondatori. Oggi possediamo le conoscenze di cui parlavano Comte, Durkheim e Mead ed è pertanto tempo di applicarle nello studio delle interazioni sociali, e perché no allo studio dei “fatti sociali” come il crimine e la devianza.

3.1 Le relazioni sociali secondo il pensiero sociologico
Per poter svolgere una panoramica sommaria sul concetto di relazione sociale da parte della sociologia, si è preso in considerazione il manuale “Sociologia della relazione” scritto dal sociologo e filosofo Pierpaolo Donati. Verrà eseguita una rassegna delle varie definizioni che il concetto di relazione sociale ha fatto proprie nel corso del tempo per poterne definire i concetti chiave.
In linea generale, “[…] per “relazione sociale» si deve intendere la «realtà immateriale (che sta nello spazio-tempo) dell’interumano», ossia ciò che sta fra i soggetti agenti, e che – come tale – «costituisce» il loro orientarsi e agire reciproco per distinzione da ciò che sta nei singoli attori – individuali o collettivi – considerati come poli o termini della relazione.” (Donati, 2013, p. 41).
Secondo il sociologo, la realtà che si viene a delineare può essere intesa come “realtà fra”, ossia costituita da un insieme di elementi oggettivi e soggettivi che formano la sfera in cui vengono definite sia la distanza sia l’integrazione degli individui che stanno in società. (Donati, 2013).
Questa, secondo Donati, può essere considerata una definizione riassuntiva del concetto di relazione sociale, ma egli decide di studiare i significati e le valenze di tale concetto sia nell’epoca moderna che in quella post-moderna.
Per quanto riguarda la modernità, Donati riporta che nelle relazioni intersoggettive e generalizzate la relazione sociale è, in primo luogo, “[…] la referenza di un soggetto a un altro soggetto mediata dalla società (ovvero dalla cultura, stili di vita, interessi e identità) a cui i soggetti in relazione appartengono. Poiché è la società che offre ciò che è necessario per operare la mediazione (valori, simboli, regole, risorse strumentali), la relazione può assumere modalità assai variabili.” (Donati, 2013, p. 62).
È altresì vero che non si può certo ridurre la complessità di tale concetto a una sola “referenza”, essa è sì una referenza simbolica e intenzionale, ma comporta anche uno “scambiare qualcosa”, un’azione reciproca in cui qualcosa passa da un primo soggetto ad un secondo soggetto e viceversa, il che genera un qualche legame reciproco.
Si genera qui l’idea che lo scambio sia “il nucleo generatore e il motore propulsivo delle relazioni sociali.” (Donati, 2013, p. 62).
“Le relazioni che vengono viste come scambi possono configurarsi in tutti i modi in cui è possibile realizzare il passaggio di qualcosa fra i poli o soggetti della relazione. Questo passaggio (o scambio) crea una nuova entità o situazione che ha i caratteri della relazione (è la relazione che emerge dallo scambio). La società moderna può essere interpretata come scoperta e costruzione di questa prospettiva, dapprima entro orizzonti limitati e poi via via in senso sempre più generalizzato.” (Donati, 2013, p. 63).
Successivamente Donati svolge un’approfondita analisi riguardo il concetto di relazione sociale nel pensiero post-moderno, nel quale l’identità è definita attraverso e con la relazione, ossia attraverso il relazionamento ad un’alterità. Ciò significa che “[…] l’identità di una persona sta nel distinguersi nel riferimento agli altri (diversi da sé), cioè nel vedere la differenza, ma anche il fatto che la differenza si stabilisce attraverso un riferimento reciproco che, al di là della negazione logica, richiede riconoscimento e scambio.” (Donati, 2013, p. 58).
È importante notare come, a differenza del pensiero moderno, sia presente una sorta di emancipazione rispetto al concetto di relazione sociale e anche in riferimento al suo ruolo nell’indagine conoscitiva. Sotto un certo punto di vista, “è attraverso la sociologia che si compie a poco a poco quella rivoluzione epistemologica («relazionale») che porta a rivedere i quadri conoscitivi in modo tale che le identità (dei concetti, dei soggetti, delle azioni, e così via) siano sempre più definite «relazionalmente».” (Donati, 2013, p. 58).
L’aspetto emancipativo di tale concetto, e l’importanza del suo ruolo all’interno della dinamica sociale e della scienza, si può constatare nel fatto che la relazione, non viene più vista come conseguenza dell’identità, bensì come costitutiva di quest’ultima. (Donati, 2013).
Dunque, il pensiero sociale moderno, e poi quello contemporaneo (o post-moderno), sono caratterizzati dal fatto che considerano la relazione sociale come una categoria fondamentale del mondo sociale, “entro una cornice epistemologica volta a comprendere e spiegare come la società venga di fatto prodotta, in contesti e situazioni determinate, «attraverso relazioni»” (Donati, 2013, p. 59).
Dal punto di vista delle scienze sociali odierne, “la relazione sociale è quella referenza – simbolica e intenzionale – che connette i soggetti sociali in quanto attualizza o genera un legame fra loro, ossia in quanto esprime la loro «azione reciproca» (la quale consiste nell’influenza che i termini della relazione hanno l’uno sull’altro e nell’effetto di reciprocità emergente tra essi).” (Donati, 2013, p. 90).
L’espressione “stare (o essere) in relazione” può assumere un significato statico o dinamico, ossia può voler significare, secondo la prima accezione, di trovarsi in un contesto dato, oppure al contrario di trovarsi in un contesto che genera nuove forme. Essere in relazione ha come conseguenza il fatto che i soggetti che fanno parte di tale scambio, agiscono l’uno in riferimento all’altro non solo orientandosi e condizionandosi a vicenda, bensì danno vita ad una connessione a sé stante, la quale in una certa misura dipende da un soggetto, in parte dall’altro, e in parte ancora è una realtà (effettuale o virtuale) che non dipende dai due, ma li «eccede». (Donati, 2013).
Anche se il concetto di relazione sociale è presente nel pensiero filosofico fin dall’antichità, è senz’altro corretto affermare che essa diventa oggetto di indagine scientifica solo con l’epoca moderna. Lo studio di tale fenomeno si declina quando quest’ultimo non è più visto come qualcosa di “dato” per natura, ma come qualcosa di costruibile e variabile. (Donati, 2013).
Il concetto di relazione sociale resta uno dei concetti più complessi e insondabili, nonostante la sua apparente semplicità. “Sfugge soprattutto il senso e il modo in cui la relazione connette gli elementi di carattere organico (vitale) con quelli artificialmente costruiti, non potendo mai eliminare completamente né gli uni né gli altri.” (Donati, 2013, p. 52).
Secondo Donati infatti: “il dilemma della sociologia sta in questo: che la relazione sociale è sia il prodotto delle concrete persone umane, sia ciò che le forgia, nel senso di dare loro una forma interiore e di comportamento esterno. Dal punto di vista della relazione, la persona umana è sia il generante sia il generato della società in cui vive. Questo è il paradosso della sociologia. Si tratta del paradosso – assai complesso – su cui si costruisce tutta la scienza sociale, la quale deve conoscere come le relazioni sociali siano il prodotto dell’agire umano e allo stesso tempo una realtà che, in quanto fenomeno emergente avente proprietà e poteri propri, lo condiziona.” (Donati, 2013, p. 41).

3.2 Le relazioni sociali secondo la neurosociologia
Le relazioni sociali sono alla base dell’esistenza della nostra specie, ma prima di tutto risulta necessario specificare che è grazie alla nostra capacità di interagire socialmente che abbiamo potuto compiere quel salto di qualità che ci ha portato a superare qualsiasi mammifero, persino quelli più “vicini” a noi umani come gli scimpanzé. Infatti, grazie alla qualità e alla quantità di interazioni e relazioni sociali, i nostri progenitori hanno saputo costituire gruppi sociali sempre più numerosi ed efficienti in grado di garantirsi protezione reciproca e maggiore incisività nel procacciamento di cibo, di comprendere l’ambiente, di massimizzare la resa delle risorse disponibili, di procurarsi i mezzi necessari per difendersi, di inventare e costruire attrezzi, utensili e armi e, non da ultimo, di stabilire un ordine sociale di prevenzione e contrasto dei fenomeni devianti al fine di preservare la collettività. (Blanco, 2018).
Da un punto di vista filogenetico, il sistema mirror potrebbe essersi sviluppato e affinato così come lo conosciamo oggi per due ragioni consequenziali: la prima perché, come abbiamo visto, attraverso il progresso l’uomo ha potuto dedicare molto tempo delle sue giornate alla sfera delle relazioni sociali, osservando gli altri suoi simili. La seconda, perché il continuo “esercizio” di osservazione e simulazione incarnata gli hanno permesso di potenziare sempre più il proprio sistema mirror.
Entrando nel merito dell’interazione sociale umana, grazie al sistema mirror ogni soggetto agente comprende, su un piano automatico e inconsapevole, le intenzioni, il movimento e le emozioni dell’altro. Ciò significa che i cervelli dei soggetti agenti sono connessi in quanto l’esperienza interna (al corpo) è condivisa, l’uno nell’altro e viceversa. Abbiamo un’interazione sociale ogni qualvolta entriamo in contatto con una persona con la quale abbiamo un legame affettivo, come il nostro partner, i nostri figli, nipoti, genitori, fratelli, amici oppure con individui con i quali passiamo buona parte delle giornate per ragioni di cooperazione, come i colleghi di lavoro. Inoltre, abbiamo interazioni sociali anche con persone che incontriamo frequentemente ma per brevissimi periodi di tempo, occasionalmente oppure casualmente. L’interazione sociale si realizza persino quando incrociamo per un secondo con lo sguardo un’altra persona. A livello impercettibile, il sistema limbico, in particolare l’amigdala, elabora in frazioni di secondo le informazioni relative allo sguardo, alla postura e all’andatura di persone osservate per pochi istanti, confrontandole con le memorie di esperienze passate. (Blanco, 2018).
Secondo Cozolino, l’interazione sociale tra due persone è paragonabile all’interazione tra due neuroni che formano sinapsi [12]. Lo spazio fisico che separa due soggetti agenti, che egli chiama sinapsi sociale, è come la sinapsi neuronale. Nella sinapsi sociale, al posto dei neurotrasmettitori, troviamo i comportamenti che portano l’informazione sociale: un sorriso, un gesto, una frase, un movimento del corpo ecc. Questi comportamenti producono modificazioni biologiche nelle persone che interagiscono e da ciò ne deriva il modellamento delle strutture cerebrali che avviene per mezzo dell’influenza reciproca (Cozolino, 2008).
Le relazioni sociali, dette anche relazioni interpersonali, sono date da una serie di interazioni sociali connotate da un legame che può essere affettivo, educativo o lavorativo. In sostanza, le relazioni sociali sono caratterizzate da un “vissuto” di interazioni sociali, dunque ciò che fa di un’interazione una relazione sociale è la presenza di un legame affettivo che sottende ad essa.
Le interazioni sociali sono da sempre oggetto di studio delle scienze che si occupano dell’agire umano. Tali scienze hanno formulato un’infinità di teorie in merito, ma la sociologia e la psicologia sociale, rappresentano quelle discipline che hanno investito più di ogni altra in tale contesto.

3.3 Le relazioni sociali: sociologia e neurosociologia a confronto
Uno aspetto che si vuole sottolineare è la presenza di una compatibilità che sottende ed accomuna la visione sociologica e quella neurosociologica. Queste ultime, seppur attraverso approcci di studio differenti ed in epoche diverse, approcciano allo studio di vari fenomeni sociali e ciò che ne risulta sono le analogie che si riscontrano. Ne è un esempio lo studio delle relazioni sociali, riportato nei paragrafi precedenti. La sociologia, come si è evidenziato, pone al centro il concetto di “scambio” quale nucleo generatore e motore propulsivo delle relazioni sociali. L’interazione viene vista come aspetto costitutivo dell’identità, e non più come conseguenza di essa. Lo studio di tale fenomeno si declina quando quest’ultimo non è più visto come qualcosa di “dato” per natura, ma come qualcosa di costruibile e variabile. (Donati, 2013).
Su un altro fronte invece la neurosociologia teorizza che le relazioni sociali producono modificazioni biologiche nelle persone che interagiscono e da ciò ne deriva il modellamento delle strutture cerebrali che avviene proprio per mezzo dell’influenza reciproca (Cozolino, 2008). Sostanzialmente, questa disciplina indaga come le interazioni sociali influenzino le strutture neurali e viceversa. Dunque, per la neurosociologia nulla risulta essere statico, bensì tutto si lega in un dinamismo in cui ciò che viviamo, le esperienze che facciamo e le interazioni che intraprendiamo possono influenzarci a livello biologico: ogni decisione intrapresa sul piano sociale potrebbe influenzarci sul piano neurale.
Già attraverso questi assunti si può notare una certa concordanza con quanto detto in precedenza rispetto alla sociologia. In sostanza, abbiamo visto come secondo Cozolino ogni decisione intrapresa nella sfera sociale potrebbe influenzarci sul piano neurale, e dunque modellare il nostro essere, allo stesso modo come riporta Donati l’interazione viene vista come aspetto costitutivo dell’identità, e non più come conseguenza di essa. L’identità di una persona secondo Donati “sta nel distinguersi nel riferimento agli altri, cioè nel vedere la differenza, ma anche il fatto che la differenza si stabilisce attraverso un riferimento reciproco che, al di là della negazione logica, richiede riconoscimento e scambio.” (Donati, 2013, p. 58) E dunque con questa definizione l’autore esegue un passo avanti, definendo l’interazione non solo come quell’azione funzionale alla creazione di un’identità, bensì al fine di compiere tale azione si deve passare attraverso dei meccanismi, oltre che di relazione, anche di riconoscimento nell’altro e di condivisione di tale esperienza da parte dei soggetti coinvolti.
Notiamo allora come entrambe le discipline attribuiscano all’interazione sociale un ruolo molto importante nella formazione del sé, l’una a livello biologico parlando di modellamento delle strutture neurali, l’altra a livello sociale in merito alla formazione di un’identità. Entrambe le discipline vedono dunque le relazioni sociali come quell’esperienza condivisa l’uno nell’altro, che porta ad orientarsi e a condizionarsi vicendevolmente.
Ancora una volta, attraverso gli studi sociologici di tale fenomeno, riscontriamo lo stesso dinamismo per il quale nulla viene dato per certo o per assodato una volta per tutte, il nostro modo di guardare il mondo si modifica in un continuo divenire reso possibile, ancora una volta, esclusivamente dall’interazione con l’altro. Il dinamismo di tale accezione lo ritroviamo anche nelle parole di Donati, il quale riguardo al concetto di “stare in relazione” lo definisce come il trovarsi in un contesto che genera costantemente nuove forme.


Conclusioni
Nel corso dell’elaborato si è voluta fornire una panoramica riguardo la nascita della neurosociologia in quanto disciplina, delle scoperte che ne hanno implementato i contenuti e dei principi che sottendono ad essa. Successivamente, ci si è concentrati sull’analisi delle analogie riscontrabili tra sociologia e neurosociologia, in particolare riguardo lo studio delle relazioni sociali da parte di entrambe le discipline, cercando di portare alla luce le eventuali corrispondenze presenti.
Si è iniziato da uno studio della literature review, passando in rassegna le prime teorie neurosociologiche ed i primi autori coinvolti in tale studio, come per esempio Bogen e TenHouten, trattati nel capitolo primo, i quali attraverso il loro studio denominato “Rapporto sulla lateralizzazione emisferica” hanno portato alla luce la prima grande teoria neurosociologica. Si sono illustrati anche quegli autori che seppur non si siano mai occupati di neurosociologia in senso stresso, hanno senza dubbio apportato un significativo contributo a tale disciplina.
Successivamente, nel capitolo secondo, si è trattato di neuroni specchio. Si è voluto dedicare un intero capitolo a tale argomento per sottolineare l’importanza di tale scoperta per la neurosociologia, in particolare per poter analizzare più nel dettaglio quanto già riportato attraverso le prime teorie neurosociologiche. Nello specifico, attraverso lo studio dei neuroni specchio si è potuto riportare a livello scientifico ciò che avviene a livello neurale durante l’interazione sociale, e dunque questo argomento risulta fondamentale nella misura in cui è funzionale ad integrare l’aspetto “neuro” all’aspetto sociale.
Infine, nell’ultimo capitolo, si è trattato più nello specifico di relazioni sociali, argomento già indirettamente affrontato nei capitoli precedenti in merito alle scoperte fatte nell’ambito della neurosociologia e dei neuroni specchio, e proprio grazie a quanto affrontato nei capitoli precedenti, si è potuto svolgere un parallelismo riguardo lo studio delle relazioni sociali a livello neurosociologico e lo studio delle relazioni sociali a livello sociologico. In particolare, ci si è voluti concentrare sulle varie accezioni di relazione sociale, e di come questo concetto sia mutato nel tempo, per arrivare poi nel paragrafo 3.3 a evidenziare alcune delle principali analogie che accomunano lo studio delle relazioni sociali da parte delle due discipline.
In conclusione, vorrei evidenziare gli aspetti di forza della neurosociologia, cercando di portare il mio punto di vista riguardo un’eventuale coesistenza, e perché no, riguardo al potenziale di un’eventuale coesione tra neurosociologia e sociologia.
Ciò che ritengo essere il potenziale maggiore della disciplina neurosociologica, riguarda il suo aspetto di multidisciplinarietà: questa caratteristica potrebbe rappresentare la chiave di volta per arrivare ad una più completa conoscenza dei fenomeni sociali. Si è consapevoli di come la sociologia, la psicologia e l’antropologia, siano già consce dell’importanza di avere un punto di vista multiplo, che permetta di spaziare in ambiti di ricerca che, a primo impatto, risulterebbero inconciliabili. A questo proposito il sociologo Franco Ferrarotti nel 1986 già sosteneva come l’oggetto della ricerca non potesse più essere concepito in senso esclusivo come fosse proprietà privata di una singola scienza, bensì egli scriveva: “Sullo stesso “oggetto” della ricerca le varie discipline orientano e fanno convergere le loro risorse, di metodo e di sostanza, in modo da chiarirlo e interpretarlo secondo una molteplicità di ottiche. È dalla fecondazione reciproca di queste ottiche differenziate, dal loro intrecciarsi e dalla loro integrazione problematica che l’analisi e l’interpretazione dell’oggetto escono arricchite” (Ferrarotti, 1989, p. 21-22) [13].
E dunque, se nel corso della sua evoluzione la sociologia ha incontrato diverse discipline quali ad esempio la scienza politica, la biologia e la psicologia, penso che sia doveroso vagliare la possibilità di un incontro con le neuroscienze così come accaduto con la psicologia e con altre discipline in passato. In questo senso, un tentativo di sondarne i limiti trovo che potrebbe essere fruttuoso, se non obbligato.
Bisogna comunque sottolineare come però, forti di un assunto biologico che ancora sembra avere grande potere nella comunicazione epistemologica, le neuroscienze evidenziano l’ovvio troppo spesso senza confrontarsi con la sociologia, laddove sembrerebbe passaggio obbligato. In questo contesto gerarchico in cui i saperi scientifici si aggiudicano spesso i primi posti, la neurosociologia può, a mio parere, invertire la tendenza che troppo frequentemente va a ricercare assunti scientifici all’interno della sfera sociale, ristabilendo un’interdisciplinarietà basata su un mutuo beneficio tra le due discipline, richiamando una bidirezionalità nel senso pieno del termine, seguendo lo stesso criterio per il quale natura e cultura si modellano e si plasmano vicendevolmente.
Il tentativo della neurosociologia dovrebbe essere, dunque, quello di avvalersi delle conoscenze delle neuroscienze per studiare fenomeni culturali e sociali.
In virtù di ciò bisogna tenere presente che allo stato attuale della conoscenza neuroscientifica, non abbiamo ancora del tutto chiaro come la nostra coscienza emerga dall’attività del cervello, come spiega il neuroscienziato Chrisof  Koch in un articolo pubblicato sulla rivista Le Scienze (gennaio 2018, numero 593), e proprio per questo motivo ogni tentativo di spiegare causalmente azioni sociali attraverso meccanismi cerebrali risulta insufficiente.
Per riportare un esempio, anche il postulato neurosociologico di Bogen e TenHouten, trattato nel primo capitolo, tende a vacillare in merito alla preferenza emisferica, in quanto non vi sono prove incontestabili di una presunta razionalità radicata nell’emisfero sinistro e che esso venga preferito rispetto al destro all’interno delle società occidentali. Bisogna anche considerare che il postulato non tratta solo di preferenza emisferica, bensì anche di presupposti logico cognitivi che si sviluppano in determinati contesti culturali, portando alla luce valenze di grande interesse sociologico, rendendo dunque questa teoria “neursociologica” nel senso pieno del termine . Vorrei concludere dunque ribadendo l’importanza di una necessità multidisciplinare d’approccio che la sociologia contemporanea è chiamata ad abbracciare, e la neurosociologia in questo senso deve tendere la mano alla sociologia, come prova del fatto che l’espansione della conoscenza porta all’integrazione dei saperi.

Riproduzione riservata


Bibliografia
  • Blanco M. (2016), Fondamenti di neurosociologia, Primiceri Editore, Padova
  • Cacioppo J. T. (2006), Social Neuscience. People Thinking abot Thinking People, MIT Press, Cambridge-London
  • Cozolino L. (2006), Il cervello sociale, Raffaello Cortina Editore, Milano
  • Donati P. (2013), Sociologia della relazione sociale, Il Mulino, Bologna
  • Franks D. D. (2013), Handbook of Neurosociology, Springer, NY-London
  • Franks D. D. (2016), Neurosociology, The Nexus Between Neuroscience and Social Psychology, Springer, NY-London
  • Gazzaniga M. (1985), Il cervello sociale. Alla scoperta dei circuiti della mente, Giunti Barbèra, Firenze
  • Iacoboni M. (2008), I neuroni specchio, come capiamo ciò che fanno gli altri, Bollati Boringhieri, Torino
  • Jedlowski P. (2008), Il mondo in questione. Introduzione alla storia del pensiero sociologico, Carocci editore, Roma
  • Rizzolatti G. (2016), In te mi specchio. Per una scienza dell’empatia, Rizzoli, Milano
  • Rizzolatti G., Senigaglia C. (2006), So quel che fai, il cervello che agisce e i neuroni specchio, Raffaello Cortina Editore, Milano
  • Sciolla L. (2012), Sociologia dei processi culturali, Il Mulino, Bologna
  • TenHouten W. D. (2007), A General Theory of Emotions and Social Life, Routledge, NY-London

Sitografia
  • https://www.youtube.com/watch?v=02szjHTch98
  • Conferenza tenuta da Giacomo Rizzolatti riguardo ai neuroni specchio e l’empatia. 22 settembre 2012
  • http://www.neurosociologia.it/cosa-e-la-neurosociologia.html

[1] www.neurosociologia.it
[2] Gli interventi di split brain consistevano nella resezione del corpo calloso, della commessura anteriore e di quella posteriore. Le commessure sono le fasce di nervi che uniscono i due emisferi, in particolare la commessura più estesa è chiamata “corpo calloso”
[3] Estratto da George H. Mead. Mente, sé e società (1936) (Formato Kindle, capitolo 1, paragrafo 4), 2010, Giunti
[4] Il cui nome completo è Street Completion Test
[5] Fonte: http://www.neuropsicologia.it/content/view/101/90/
[6] Il cui nome completo è Wechsler Intelligence Audult Scale
[7] Popolazione Amerinda ubicata nel sud ovest degli Stati Uniti
[8] Il titolo originale è “The Social Brain: Discovering the Networks of the Mind.
[9] Questa convinzione aveva origine dal lavoro di Jean Piaget, una figura molto influente nel campo della psicologia evolutiva.
[10] Egli utilizza questo termine durante una sua conferenza: https://www.youtube.com/watch?v=02szjHTch98
[11] Comte coniò il termine “sociologia” sperando di unificare tutte le scienze particolari come psicologia, storia, economia ecc.
[12] In neurofiologia, la sinapsi rappresenta la connessione funzionale tra due cellule nervose.
[13] Ferrarotti, F. (1968), Manuale di sociologia, Edizione Laterza 1989


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